Questo racconto come altri che inserirò nel blog non mi appartiene: E’ stato scritto anni fa da una persona che oggi non c’è più e con la quale ho condiviso qualcosa. La ringrazio, là dov’è, magari anche solo nel ricordo dei tanti che l’hanno conosciuta. Questa persona ha voluto rimanere anonima, tale rimarrà, rispetto la sua decisione.
Zizì e la vendetta
Storia
di un finanziamento pubblico
Stamperia Clandestina Ubaldini
1a edizione – dicembre 1996
2a edizione – gennaio 1997
Finito di stampare
Nel gennaio 1997
A grande richiesta degli affezionati lettori, la Stamperia Clandestina Ubaldini ne ha sfornata un’altra delle sue. Il successo riscontrato dai titoli con cui si è inaugurata la nostra attività – benché l’Orto Automatico sia sprofondato al piano di sotto, e il protagonista di Senza Tetto abbia levato il saluto all’autrice della novella – tale strepitoso successo ha consentito il decollo di una serie di novità editoriali destinate ad un pubblico sempre più vasto. A partire dal Grande Cruciverba del Gruppo Avanzi e L’arte della deriva (XI/95), riservati a una stretta cerchia di specialisti, le uscite si sono susseguite con preoccupante regolarità, comprendendo opere di divulgazione (Lettere a proposito dell’ Alberto), trattarelli commerciali (Nota spese per il ragionier Cutrignelli), testi brevi di intensa spiritualità (Novena di Noicattaro a Gesù Bambino, XII/9), valori bollati (edizione speciale a tiratura limitata ad un solo esemplare se no i genitori ripudiano l’Editore), nonché cofanetti appositamente studiati per una frequente consultazione, con indiscusso valore pedagogico, accurata veste grafica e una serie di eleganti illustrazioni (Vita da cani – 10 bags perlecacchedeicanisignori, XII/96).
Per quanto riguarda le pagine che seguono, i lettori converranno che il racconto rappresenta già al suo apparire un classico del brivido, non tanto per la perizia del narratore quanto per la sensazione del pericolo incombente della prima all’ultima pagina; per l’indecifrabile identità del protagonista: nonché per la scabrosità della materia trattata, che riteniamo sia da riservarsi ad un pubblico adulto.
Tornando alla presente avventura editoriale, e in particolare i mezzi di produzione, la formula tecnicamente vincente (cane – computer) ed il formato ridotto – che consente l’uso della vecchia carta intestata della Cooperativa – hanno permesso di mantenere ridotti all’osso i costi di realizzazione.
Doppiato dunque felicemente il capo del suo primo anno di attività, la Stamperia Clandestina Ubaldini raccoglie ora le forze verso nuove mete ancora più ardite. La coltivazione dei papiri continua; l’assunzione full-time di tre amanuensi è ormai solo questione di tempo; alla nota vignettista Alba Casulli è stato rinnovato il contratto per trecento miniature in oro zecchino. Fra trecento anni, dunque, vi manderemo gli auguri di natale fatti a mano come tutti i mortali.
l’Editore.
Formica rossa era il nome di battaglia dell’autrice da piccola: glielo appioppò suo padre e, se leggete quello che segue, vedrete che fa bene a mantenere l’anonimato. Tanto voi lo sapete fin troppo bene chi è.
Zizì cresceva. Del primo incontro ricordo la circospezione, la gentilezza da equilibrista, lo sguardo schivo da topolino di campagna.
Ma poi crebbe forte spavaldo, col baffo normanno che scardinava il cuore alle donne e non le faceva dormire la notte. E difatti, che nottate mi fece passare! Per decoro, sull’argomento passerò sopra, perché certi richiami, certe fughe, certe rincorse, certi gridi furiosi una signora li deve tenere ben chiusi nell’armadio della memoria; ma siete certi che ne furono dette e fatte di tutti i colori. Ai primi incontri ci furono scambi di regali come in ogni rapporto di buon vicinato. Con la signora Masi erano stati regali di mieli e liquori, ricottine e ricette; con lui furono noci, fave e formaggio, che si veniva a godere comodo comodo sul mio divano.
Del mio divano, a proposito, vi volevo parlare. Non è che in masseria ci fossero troppe comodità, al mio arrivo. Era un posto deserto da almeno trent’anni, e i trent’anni di abbandono si vedevano tutti, a cominciare dal calendario lasciato sul muro. I vitelli pascolavano fin dentro casa, e portavano pure loro abbondanti regali, se non avevi cura di tenere ben chiuse le porte. E che porte! La migliore non aveva più né vetrine né serrature; di tutte quante, il fasciame era più gallerie per i tarli che legna legnosa; e a toccare con mano certi quartieri più popolari si sfaceva come un tronchetto di cenere. La porta della stanza col caminetto, vetri e serrature non ne aveva mai conosciuti. Così, il primo lavoro fu una vetrina per schiacciarci sul naso nelle lunghe giornate di pioggia; e chi non è falegname, si arrangi. Io certo non mi mettevo a buttar soldi per un posto così. Mi arrangiai per due e più mesi rubando pallets e legname ai cantieri, e dandoci su botte di sega e martellate da orbi, finché una leccata di verde azzurro sul lavoro finito non lo fece parer quasi bello. Ci presi gusto. Venne la volta del finestrino; poi, le mensole della legnaia, utilizzi da inzuppare più legna sotto la volta che gocciolava: poi, il tavolino pieghevole per il tè; poi, i ripiani per le statuette di San Gregorio, per i candelieri di Tito Quagliotta, per la torcia di bambù di Marisa; poi venne l’armadietto a muro; e il verde azzurro sopra tutto quanto. A un certo punto, visti gli impareggiabili risultati, mi lanciai nella costruzione di un bel divano, da dormirci su di fronte al fuoco. Avrebbe avuto uno schienale intagliato, tutto ghirigori e volute, e due braccioli rotondi come certi divani alla turca fine settecento. Persi più tempo disegnar due volute che a costruire tutto quanto il mobile, ma alla fine ecco lì il risultato: la masseria non era più abbandonata… Alla faccia dell’ingegner Cappitiello che non aveva voluto, capo in testa all’ufficio tecnico comunale, dare i permessi per restaurarla.
Vi ho parlato di Zizì e del divano; dovrò ben raccontarvi chi era questo tal Cappitiello. Zizì in fondo in fondo, era un avventuriero, un povero a lui che meglio a perderlo che a trovarlo; un ladruncolo, un rovinafemmine, un mangiacase a tradimento, e niente più. Cappitiello, invece, delinqueva sul serio. Io non vi so dire se per stupidità o per malaffare, se per soldi o gratis et amore; e non lo voglio sapere; ma delinqueva, col vento in poppa del piano regolatore fatto apposta per intralciare i buoni cristiani che volessero rimettere su masserie cadute in frantumi.
Le vie d’uscita ci sarebbero state, ma ci voleva un pizzico di buon senso comune; e quello, signori miei, costa; non si può avere così.
Così, c’era stata un’infinità di vie crucis sopra al comune, e che tormento per chi non vuol chiedere niente a nessuno! Qualunque stanza trovavo, mi trovavo a parlare coi muri. Il primo motore immobile, venne fuori, era lui, Cappitiello. Il sindaco ci metteva tutta la buona volontà che volete, e anche la giusta faccia preoccupata da circostanza, ma nessuno al mondo l’avrebbe convinto a prendere di petto la situazione e fare lui l’ordinanza che si restaurasse una buona volta, per tutti i diavoli, e diamoci un taglio alle farragini burocratiche! Uno il coraggio non se lo può dare; così ti spediva l’ufficio legale. L’ufficio legale era una brava persona, ma di piani regolatori fatti male non capiva un accidente; e ti spediva l’ufficio tecnico. Io a questo punto puntavo i piedi e pretendevo che almeno si parlasse tutti quanti insieme; e tutti, sbuffando con la santa pazienza, ci rassegnavamo a sentire la voce monotona di Cappitiello che pontificava chiosando la delibera comunale.
– È una trappola! -, squittivo io. – Un privato non ci può fare niente se un cornuto due costruzioni più dietro non vuole firmare un pezzo di carta che non gli serve! Dovete prenderla voi l’iniziativa, o almeno accettare che ciascun proprietario faccia Patti separati con voi. Posso mai partire alla volta di Roma per mettergli il coltello alla gola, a quel porco?-. Poi le considerazioni scientifiche cedevano il posto ai singhiozzi alle suppliche: – Dottor Cappitiello, intervenite voi! Qui ci levano i finanziamenti; qui rivogliono i soldi indietro; qui passo i guai io! Deh!, metteteci una buona parola, voi che potete! Unica speranza nostra! Che è peccato una masseria così bella, che cada in rovina senza poter muovere un dito! Ce l’avete coscienza? Non avete casa anche voi? – e così via. Lui ti guardava con quell’aria diffidente malata, che trasmetteva malattia e diffidenza pure alle pratiche sul tavolino; ed io stessa me ne tornavo febbricitante ed astiosa da ogni visita all’ufficio tecnico. Pure adesso, soltanto a ricordare la faccia sua, mi risale la febbre; e sto scrivendo, difatti, col termometro stretto al braccio per vedere dove arriviamo. I consigli di Cappitiello erano magistrali. Tradotti nei termini di quel che avrei dovuto fare io, a suo dire, suonavano pressappoco così: “Cara signora, vada un po’ a Roma, a Brindisi e a Lecce; riparli gentilmente ai proprietari delle masserie di dietro, proprio come ha già inutilmente fatto; e senza spazientirsi, senza disperare, senza infuriarsi quando il bravo farmacista di Roma le richiederà la mazzetta per concedere la firma di sua moglie; si offra ancora di pagare lei le spese notarili per tutti, benché adesso non ci siano soldi più affatto; e, mi raccomando, sia convincente; aggiunga una strenna per i quarantadue nipotini, per le fantesche, per le opere di beneficenza, per le intenzioni del Santo Padre; creda fermamente nella necessità vera, reale, assoluta, di questo atto d’obbligo consortile unilaterale, perché è evidente che il mondo non gira senza di lui (trentotto e otto). E prima di tutto, vada un attimo in campagna, e si faccia – è questione di un’ora – il rilievo di tutto il retro, ma tutto, senza una lira, senza un aiuto, senza il mandato di nessuno dei proprietari; e non trascuri computo delle volumetrie, perché noi del comune ne avremmo bisogno per ripartire equamente la seccatura (trentanove e due). Oh, e poi nel progetto che ha già fatto per il davanti ci deve mettere pure il di dietro, anzi è stato un errore non far così fin dall’inizio, anche se i soldi non sarebbero bastati mai e anche se nessuno gliel’aveva mai chiesto, noi del comune compresi; perché, vede quel circoletto minuscolo sulle carte, il piano regolatore dice chiaro e tondo che quelle tre masserie sono una cosa sola, e i tre proprietari, o il loro milione di eredi, è d’uopo che siano tutti d’accordo sul fatto che lei non lasci cadere a pezzi il pezzo che le piace di più. Mi capisce? questa è l’unica strada, e se non ci riesce lei che è un privato, figuriamoci se ci riuscirebbe mai un’intera amministrazione.”
Signora e buono, mi veniva di prenderlo a calci nel culo. Lui, e il maledetto progettista che aveva disegnato quel circoletto minuscolo sulle carte, e gli riempiva la bocca di queste parole: “I proprietari, consorziati… ” Consorziati, che significa “mai”.
Intanto i convegni con Zizì si facevano più frequenti. Non voglio dire che mandai apposta all’aria il matrimonio, ma insomma successe, e fui più libera di andare e venire.
Per poco non litigai col mio cane, che grugniva appena di Zizì aveva sentito anche solo l’odore. – È una bestia, ammoniva. – I suoi modi non mi piacciono neppure un poco.- Credo che gli avrebbe volentieri fatto a pezzi il fondo dei pantaloni, se quello gli fosse venuto mai a tiro.
Mi presentai all’anticamera del TAR. Immaginatevelo da soli, perché a me la febbre continua a salire, lo stanzone tenebroso e pieno di echi, e l’usciere sospettoso che l’attraversava ciabattando di mala voglia. – Cosa vuole lei qui? Questo è un tribunale, mica un mercato. Il pubblico non si riceve. Avvii una causa e poi ascolteremo qui il suo avvocato.- E non volle sentire ragioni. Rino Fedele mi sconsigliò. -Ce l’hai un milione e mezzo solo per iniziare? E ce l’hai il tempo per aspettare che sia finita? E quando fra cinque anni L’hai vinta, che ti credi che debba accadere? Che ti diano i permessi per fare il comodo tuo? – Sembrava dire: “Sei scema?” E continuava: – Se il TAR dà ragione a te, Il comune si rimbocca le maniche e rifà il piano regolatore. Non dico che non sarà una soddisfazione: ma prima di altri dieci anni la concessione tua non arriva. Quanto tempo hai detto che puoi ancora aspettare? due mesi? – Così la questione si concludeva, io singhiozzavo sulla spalla di Rino Fedele, professore di belle maniere, e sua moglie mi offriva il caffè. Mi facevano visitare la casa, l’orto e il giardino; si parlava di potature di vallonee e di pomodori color melanzana. Ci salutavamo da buoni amici; quando a Cappitiello, la cui furfanteria era ormai sulla bocca di tutti tante ne aveva fatte pagare, giurai che prima o poi mi sarei vendicata.
Mentre duravano le vie crucis, Zizì cresceva in bellezza e perfidia. Ormai intuivo chiaramente di non essere l’unica donna della sua vita, e che lo spartivo con chissà quali razze di femmine. Mi sentivo l’aria del tradimento in casa, lo arguivo da certe tracce e da certe macchiette che non sarebbero state una prova presso nessun tribunale; e ti davo innanzi sospirando e aspettando. Finché non arrivò il giorno che tornerai alla masseria di sorpresa, e mi trovai tutto per aria, il frigorifero vuoto, il letto sfatto, pieno di briciole del festino fatto a mie spese; e all’orizzonte Zizì in compagnia che fuggiva.
-Ah, Zizì, questa sì me la paghi! – Già ero pieno di piena di veleno, e non ci misi niente a decidere che l’avrei assassinato.
Cominciai il giro dei ferramenta, così abituati alle mie richieste più strane che non avrebbero dubitato di me neanche un attimo se con indifferenza, fra un una malepeggio e una punta di trapano al molibdeno, avessi chiesto un pochino di veleno per topi. Fatto sta che i commessi mi portavano certi pacchi coloratissimi, e illustrazioni di topi tutti contenti di morire con mezzi tecnologicamente avanzati; e ognuno di questi presentava un tale sproloquio di avvertenze e precauzioni da prendere, che solo a leggere mi sentivo di morire io per prima. Non mi parve equo. Vero è che non potevo mica sfidarlo a duello, il miserabile traditore; una signora certe cose non le può fare; e quanto a sbatterlo fuori di casa, il punto era che Zizì non mi aveva mai chiesto il permesso di entrare. Io non lo so come facesse e dove diavolo prendesse le chiavi, ma avevo voglia a cambiar serrature e mandar catenacci, sul più bello me lo trovavo in casa, ora silenzioso gentile, ora a muso duro e dispotico, e non si levava dai piedi se non aveva finito di fare il comodo suo; e soprattutto di dare fondo alle mie provviste. Pareva che attraversasse i muri, che scendesse la cappa del camino come babbo natale. Ma insomma a mentre più fredda, se dovevo proprio macchiarmi di un assassinio preferivo ammazzar Cappitiello. Lasciai passare un poco di tempo.
Intanto la regione mi mandò a dire che il tempo stringeva. “Hai deciso che devi fare? Qui la cera si strugge e la processione non ci cammina. I soldi che ti abbiamo già dati li hai spesi davvero bene, quindi gli altri li devi avere. È vero che adesso non possiamo dartene neanche un quattrino; ma tu ricorda che li devi spendere tutti e comunque entro l’anno come se le avessi già in tasca, pena la revoca del contributo. Buone cose distinti saluti.” A me pareva un po’ strano che una cooperativa di disoccupati dovesse inventarsi di sana pianta tutto un anno di contributi; se fosse stata capace, che li avrebbe chiesti mai a fare? la stamperia clandestina Ubaldini, quella che pubblica queste pagine ed è capacissima – ne ho le prove – di stampare valori bollati, a quell’epoca non c’era ancora. E poi una cosa è fabbricare un francobollo finto per divertire Romeo, un altro è batter moneta per settantacinque milioni. Col successo poi che si delineava all’orizzonte, chi altro ci avrebbe dato un lavoro col quale pagarci questo? Non era facile insomma, neanche a svaligiare il salvadanaio di tutti quanti i nipotini. Ma io avrei fatto debiti anche peggiori, se almeno in mano avessi avuto i permessi. Senza carte chi s’imbarcava? Così sedetti al mio tavolo di presidente mandai una bella letterina in regione. “Cari Signori, le cose stanno così e così, e voi già lo sapete. La sovrintendenza ci ha messo otto mesi; il Formez ci ha menato il naso per un anno intero, noi e la Fratelli Dioguardi, prima di dire di no; il nostro sponsor si è stufato; i soci gratis non vogliono lavorare; il tribunale commerciale ha deciso che non esistiamo; il Busc ha perso le carte; all’ Agci non risultiamo neppure iscritti, benché il nostro assegno se lo siano pappato; Cappitiello è un salame; senza soldi né concessione non ho intenzione di muovere un dito. Fra due mesi il tempo è scaduto, ditemi voi che pesci devo pigliare.” Mi dissi: “Io la parte mia l’ho finita. Vediamo che mi consigliano loro.” E tornai a pensare a Zizì.
-Signora, trappole di questa grandezza non ne sono state mai fatte. – Con tutta l’esperienza acquisita, decisi di costruirmelo io, un bell’incrocio fra il Taj Mahal e le carceri di Piranesi, da celebrare i mesi di affettuosa convivenza, le crudeltà del tradimento, e la feroce vendetta che andavo cercando. Partii dalle maglie arabescate in filo d’ottone, dai fermagli ribattuti in piattina di rame, dalle saldature stagnate tra una partitura e l’altra, con un cabochon di turchese incastonato per motivo decorativo; assicurai la struttura portante in legno di cedro con cunei alternati in gelso e castagno; intarsiai il pavimento a losanghe cangianti di madreperla; decorai il frontone d’ingresso orientale a triglifi e metope in corallo di Torre del Greco; spartii l’interno in fughe di saloni in finto marmo come a Caserta, e foderati di specchi come a Versailles; aggiunsi corridoi labirintici e cantine ricolmi di noci, fave, vino e formaggio; disseminai mille ingressi e nemmeno una uscita; un milione di piedistalli scolpiti per altrettanti pezzetti di scamorzone ; e il meccanismo a molla per far scattare, piffete, tutte quante le porticine all’unisono. E il crollo delle porticine avrebbe comandato un carillon elettronico a dodici campane, stonate come quelle del campanaro di San Giuseppe, da cui mi feci prestare la registrazione assordante dell’Alleluia. E mia appostai nel buio.
Furono notti e notti di attesa, orecchie ben tese nel vuoto, a far tacere il battito forte del cuore e il ronfare del cane, che dopotutto se ne fregava. Per diversi giorni Zizì corteggiò la rovina, come il turista che lascia per ultima la visita al Cupolone. Ci passava accanto sgranocchiando e ignorando, sogguardando col baffo indifferente, pareva, alle ghiottonerie che collezionavo all’interno. Io non mi fermavo. Salsetta verde, frittelline allo sciroppo, calzone di cipolle e di noci; pancotto dei pastori di Minervino, filetto al pepe verde, torta di cioccolato; pasta e coraggio, salmone alla tartara, petto d’oca affumicato; zucchine in agrodolce, mozzarella in carrozza, cartellate al vincotto; ricottine alle erbe, rosolio al latte, i grappini di Agostino Parodi; e chi più ne ha più ne metta. Finché quando proprio stavo perdendo le staffe e la roba iniziava a puzzare, ecco il topo che casca in trappola.
“In allegato si trasmette copia della delibera di Giunta Regionale di cui all’oggetto. Così come disposto con il suddetto provvedimento si invita la Signoria Vostra a restituire a questa Regione le somme indicate nello stesso, maggiorate degli interessi legali con decorrenza dal giorno successivo alla data in cui è stato effettivamente riscosso eccetera eccetera. Si precisa che decorso inutilmente il termine innanzi citato si provvederà a dare mandato Settore Legale della Regione per il seguito di competenza. Statevi bene tanti cari saluti.”
Io però non me ne ero stata con le mani in mano ad aspettare il decreto di revoca. Sapevo che l’aria era amara e che quelli non cercavano se non carne fresca; avevo riunito i soci e gli avevo fatto la mia proposta. “Ragazzi, qui non ha funzionato un accidente, non vedo perché dovremmo insistere a funzionare proprio noi. Che ne dite di ucciderci?” Mai suicidio fu accolto con maggior favore. Antonietta si doveva sposare; Roberta se ne andava a Milano; Remigio emigrava al piano di sopra; gli altri si erano già dileguati da un pezzo. Restavo solo io coi soldi giusti giusti per chiudere. Li tirai fuori da sotto il mattone e ci presentammo davanti al notaio. Gli dicemmo: – faccia in fretta. – Poi chiudemmo gli occhi e aspettammo. Ora, per ammazzare una cooperativa non va bene il veleno per topi, e anche qui ci vollero carte su carte perché il tribunale commerciale volle essere certo che la nostra dipartita non avesse dispiacere a nessuno. Gentilmente, partecipammo la notizia alla regione che, seguendo il suo stile, non ci degnò di risposta. Insomma, ormai non esistevamo più per nessuno, così Io credevo, quando mi grandino addosso il decreto di revoca. “Non mi tocca”, vaneggiavo mentre i vetri del lucernario cominciavano a rompersi. “Ad ogni buon conto, voglio ancora cantargliene quattro”.Così, mentre il diluvio allagava le strade, stilai un’elegante lettera per l’assessorato, con un tono staccato tra il meravigliato e il deluso.
“Signori miei, riflettete. Vi abbiamo menzionato le cause di forza maggiore e ve ne siete fregati. Vi Abbiamo consultato sul da farsi e ve ne siete fregati. Vi abbiamo notificato che chiudevamo baracca e siete rimasti a guardare. Che andate trovando adesso? ormai qui non ce n’è più nessuno. Poi non dovreste sbagliare le parole quando scrivete i decreti. Nella fattispecie la parola da usare era “cessazione”, non “revoca”. Correggete e mettetevi l’anima in pace.” Poi mi dimenticai della cosa e, mentre le fogne traboccavano negli scantinati, mi ritirai in campagna occuparmi dei fatti miei.
-Guarda, Zizì, non ti ammazzo. – Lui teneva un’aria preoccupata che non toglieva niente alla fierezza da protomartire. – Ammazzami, ma non mi addomestichi. – E: -Guarda che la mia toperia non si tocca. Non divento fesso come il tuo cane. Ammazzami quante volte vuoi. – Io non gli rispondevo neppure. Gli le vai tutti i viveri e gli servii certe minestrine condite a dosi millesimali di veleno, quello che già sapete, per mitridatizzarlo. Zizì non era capace di digiunare. Tutta la sua furberia si infrangeva contro una ingordigia colossale, e perfino la stricnina gli piacque. Io pensavo ancora a Cappitiello, e credevo che in città l’alluvione si fosse ormai ritirata. – Ah, Zizì, quante cose mi devi pagare. Dimmi grazie se non ti distruggo. Stammi a sentire. Devi salire sopra al Comune: al piano di sopra dove sta l’ufficio tecnico comunale, ma non ti far scoprire dai carabinieri a pianterreno, se no ti uccido. Al primo piano stanno gli uscieri e devi evitare anche quelli. Sopra sopra devi arrivare. Le porte sono di legno, che per te non sono un problema. Comincia dalla stanza in fondo a sinistra e continua con metodo. Mangiati tutte le cartelline che trovi. Tutte le tavole del piano regolatore. Mangiati il regolamento edilizio. Mangia il prontuario del restauro dei Trulli. Mangiati protocolli di entrata e di uscita. Mangiati gli archivi della corrispondenza. Mangiati le domande di concessione. Mangiati le delibere comunali. Passa alla stanza accanto e continua. Mangiati le aerofotogrammetrie. Mangiati i verbali. Mangiati i tavoli da disegno. Fino all’osso divorati Cappitiello. Poi se vuoi prenditi pure il suo posto che nessuno ci ha da perdere niente. Poi torna qui che ti Libero. –
-Io non ci voglio andare. Tutta roba pesante. Brutto ambiente. Se mi scoprono mi fanno la festa. – . -La festa te la faccio io se non vai. Vedrai che ti trovi bene, che fra simili ci si capisce. Vedrai come ti piacciono gli assessori. Vedrai che meraviglia le adunanze del consiglio. Ti potrai mangiare tutte le poltrone imbottite. Gli uffici anagrafici sono stati creati per te. – e via dicendo. Passai a raccontargli le magnificenze del salotto buono del sindaco, le noccioline salate del bar all’angolo. Zizì cominciò a interessarsi. Mano mano che lo istruìvo, perché doveva manovrar nottetempo, rodersi Cappitiello e non altri, divorare le pratiche e non perder tempo con i quadri d’autore, il baffo biondo fremeva sempre più d’impazienza. Vero è che continuavo ad assottigliargli la dieta; ma sentivo che le sue ambizioni salivano. Il giovanotto voleva fare carriera; buone pure le femmine irate, se potevano metterlo a capo del municipio. – Ci starai bene, gli dicevo. – Farai la tua figura; non governerai peggio di un altro. Come sta il mondo adesso, la tua voracità non impressionerà più nessuno. Tu non sei nato per restare in campagna, – e così via. Mi intenerivo anch’io, come ai bei tempi andati quando la sua timidezza mi svegliava l’istinto materno; ma soprattutto mi assicuravo che gli passasse la voglia di ritornare.
Ero quasi riuscita a convincerlo, quando il due novembre si ruppero gli argini. Mi arrivò a casa l’ingiunzione di pagamento, che diceva più o meno “Se tu non paghi ti tiro il collo”.
Questa lettera della regione, dopo tante che ne avevo inutilmente aspettate! Mi produsse una forte emozione; Improvvisamente, Cappitiello e Zizì dileguarono dal mio orizzonte. Ebbi il vago sospetto che il suicidio non fosse riuscito abbastanza, e che i malandrini non fossero affatto rammaricati di tutti i guai che mi avevano lasciato passare. Pensa pensa, mi vende finalmente la luminosa idea di rivolgermi a un avvocato. Già, un avvocato! come decidersi ad andare dal medico quando chi sa se il policlinico intero ti può ancora servire. E che genere di avvocato? Fino a quel punto credevo che fossero tutti un’unica razza. Ma volendo il migliore, e girando pertanto vari negozi, scoprii che ce ne sono infinite marche, con nomi astrusi come “commerciale”, “societario”, “amministrativista” e via di questo tenore: e a me sarebbe stato più utile averne avuto un rappresentante per tipo, riuniti tutti in assemblea permanente da quando era stata fondata la malaugurata cooperativa. I più addentro si rifiutavano di prendermi come cliente (“Signora, oramai non ne vale la pena!”), cosa che mi costrinse a interminabili scarpinate in lungo e in largo per la città sotto l’acqua invernale, il cuore e i piedi umidi e gonfi. Tutti quanti però furono abbastanza gentili da assicurarmi che l’aver chiuso baracca concentrava tutti i guai su me sola, salvo poi far io quindici cause onde rivalermi sui soci; che ‘cause di forza maggiore’ significava l’esatto contrario di quanto una media cultura umanistica potesse lasciar arguire; che la revoca di quei maledetti era pienamente dovuta; che le mie letterine in regione non valevano carta straccia; che insomma ero a un passo dal pignoramento e meno male se non possedevo un cavolo, ma che stessi bene attenta a non ereditare una cicca; eccetera eccetera. Rassicurata su tutti questi argomenti, e capita l’antifona che bisognava di corsa fare ricorso, mi scelsi tra tutti quanti i papabili l’avvocato che più somigliava ad un padre, rude, pelato, bravo e sbrigativo; gli firmai una delega, che vedesse di rimediare al disastro, e me le torna in campagna a curare i miei affari.
Quello fu un periodo ben strano. Volentieri mi sarei ritirata in ospizio o in convento, e scomparire agli occhi del mondo; ma mi seccava che questa fosse l’unica via praticabile. Diverso è scegliere tu di tirarti fuori dal gioco, e diverso è non potere far altro. Di Cappitiello quasi quasi non ricordavo nemmeno chi fosse, tanta era stata la sberla della brutta notizia; quanto Zizì, le passate in ruberie e i tradimenti parevano cosa da niente, in confronto alle bricconate della regione e al fuggi-fuggi dei vecchi soci. Tanto che persi la voglia sia di vederlo stecchito, sia di addestrarlo per una improduttiva vendetta; e passavamo il tempo, lui in gabbia e io e il cane accanto al fuoco, a raccontarci le favole. Diventammo tutti e tre grassi come maiali, un po’ per la noia, un po’ per non lasciare una briciola all’ufficiale giudiziario quando fosse venuto a pescarmi. Veramente Zizì e il cane non erano affatto contenti di starsene lì senza avere nulla da fare; ma io ero spaventata oltre ogni dire e me ne stavo ferma ferma e tremante, rincantucciata in un angolo come un topo in fondo a una trappola. Passarono mesi assai tristi.
Ma mentre ero in trappola, forze più grandi di me si misero in moto. Intanto il mio buon avvocato si dimostrò più bravo di me a far lettere capaci di colpire nel segno. Lo vedo ancora, penna sull’orecchio e maniche rimboccate, trafelato fra una pratica e l’altra, la pelata luccicante di genialità, mettermi in mano ventidue pagine di rampogne contro l’ente regione; ma così ben trovate, così ben cucite che ogni tanto ancor oggi me le vado a rileggere per rinnovare il godimento. “Anche al fine di dimostrare nei confronti di chicchessia la linearità e la legittimità dell’operato proprio e della Cooperativa tutta, nonché l’evidente nullità, inammissibilità e infondatezza della pretesa delle Regione… “, scriveva a pagina tre, e a pagina 4 tuonava: “Nessun titolo, allora, la Regione può pretendere di azionare contro un soggetto giuridico oramai inesistente.” Io leggevo approvando a gran cenni del capo. “Ben altre, infatti, sono le azioni di cui la Regione dispone per recuperare il proprio presunto credito, né ovviamente spetta all’opponente suggerirle.” Difatti Io tenevo la bocca cucita. Poi si addentrava nella discussione di come e di quando la Regione avesse sbagliato ad essere scortese; riportava a galla la vecchia scarpa delle cause di forza maggiore; ricordava tutte le mie letterine che babbo natale aveva lasciato senza risposta; tirava a destra e a manca diverse paia di orecchie; chiamava in ballo l’ostinazione di Cappitiello, “esempio lampante di come la macchinosità delle procedure pubbliche possa vanificare qualunque iniziativa privata”; e superava se stesso con la requisitoria di pagina dieci dopo un rigo di pausa decorato con sette stellette a sei punte. “Non è chi non veda l’infondatezza della pretesa!” E da capo: le cause di forza maggiore, la cattiveria di Cappitiello, il daffare che mi ero data, tutto da capo. “Atteggiamento schizofrenico, quello della Regione! Essa Regione, Infatti, ha accertato la bontà del progetto eccetera eccetera. A che titolo, allora, chiedere la restituzione eccetera eccetera, quando risulta documentalmente la carenza di qualsivoglia responsabilità in capo alla Cooperativa per l’interruzione forzata?” Io leggevo e parteggiavo per lui, lo incitavo, suggerivo: “Diglielo che se la prendano con Cappitiello, se proprio vogliono un malandrino!” e così via. Le ultime dodici pagine aggiungevano ancora merletti e cestelli in quantità talmente barocca che il tribunale gli avrà detto: “Basta così, va benissimo, ma basta così!”; e poi il papiello terminava con delle frasi staccate come gli ultimi sussulti di una coscienza, sibilline, che sconfinavano nel gergo delle giaculatorie deirituali di magia bianca: “Con vittoria di spese, diritti ed onorari”; “Salvezze tutte.” Una filippica così bella che il cane veniva ogni cinque minuti e ci dava su una leccata.
Questo produsse i suoi effetti, tanto che sei mesi dopo lo stesso autore ebbe “il piacere di comunicarLe… che per ora siamo dunque al riparo da azioni esecutive della Regione”. Ma fu niente ancora in confronto a quanto si preparava nei sotterranei della città intera. Per farla breve: venne fuori che in tutto c’erano trcento disgraziati nelle mie condizioni, prima costretti a far niente da altrettanti signori Cappitiello, e poi assoggettati a finire sul lastrico perché la regione si era rimessa a scrivere lettere. Mal comune, mezzo gaudio: sta di fatto che l’ente pubblico non aveva i mezzi per tenere in piedi tante liti tutte quante insieme: e il vulcano era lì lì per scoppiare. Iniziai a costruire un tavolo da convento, lungo per trecento persone, coi piedi decorati a doppia spirale e da mordenzarsi in tinta noce; che adesso è finito con l’aiuto di Alberto, e siete tutti invitati a provarlo. Comunque fu un bene che non venni in contatto con nessuno degli altri, se no a quest’ora staremmo tutti nel Bosco delle Pianelle a fare la parte dei partigiani.
A questo punto la storia è finita, a tarallucci e vino come vi potevate aspettare. La regione si è intimidita: messa alle strette ha condonato il debito a tutti quanti; Cappitiello è rimasto a fare la muffa dov’era; all’avvocato ho dedicato una chiesa, ed ho votato per lui quando si è candidato alla presidenza della Provincia; Il mio cane è rimasto grasso come un maiale; io ho ripreso coraggio; e Zizì è rimasto in gabbia. Per ora: perché gli sgarbi della regione non mi sono piaciuti, e Cappitiello deve ancora avere la sua. Così ho aspettato la fiera dei Santi Medici, dove compaiono ancora quelle belle bancarelle che tanto spiacciono al WWF; e gli ho comprato una bella moglie bianca e pelosa, pingue e prolifica come un coniglio. E per adesso sono là dentro che ruzzano insieme.
19 dicembre 1996