La Formica Rossa - LA SERA DELLA BAGNACAUDA

Questo racconto come altri che inserirò nel blog non mi appartiene: E’ stato scritto anni fa da una persona che oggi non c’è più e con la quale ho condiviso qualcosa. La ringrazio, là dov’è, magari anche solo nel ricordo dei tanti che l’hanno conosciuta. Questa persona ha voluto rimanere anonima, tale rimarrà, rispetto la sua decisione.

bagnacauda

LA SERA DELLA BAGNACAUDA

(breve dramma passionale)

In appendice la ricetta di Fulvio

La Formica Rossa


 Quando vi attardate nel salotto della signora M., già stupefatti dalla bagnacauda più gentile del mondo, e storditi dal mareggiar di vini sui quali non oso pronunciarmi; e continuate a seminar frivolezze, sprofondati nel divano, col gatto accanto; e iniziate e raccogliere i pensieri sulla collocazione precisa del paltò che sarà d’uopo riprendere di lì a poco: proprio allora, le mie antenne ammoniscono, sarebbe più salutare tener d’occhio quel tipo accanto al tavolino di cristallo. Quel tipo lì arrivato tardi, ma non abbastanza da lasciarmi condurre in porto le trattative private colla quarta e ultima fetta di torta al cioccolato; e che adesso se ne sta zitto e quieto innanzi a tutti, recitando un’aria dimessa; e armeggia attorno a una matassina d’acciaio come se non stesse facendo niente del tutto.

State in guardia. L’uomo della rai, detto anche, da alcuni, zio Fidel, d’altri babbo, sa quel che occorre per fregarvi l’attenzione appannata.

Quando vi avrà pienamente informato, visto che gliel’avete proprio chiesto, su quel che fa e come e perché, misurerete l’abisso che separa le vostre vite oziose e curiose dall’operosità e dal raccoglimento certosino. Saprete in un istante, che sarà chiaro e distinto come un risveglio improvviso, d’esser trecento vite indietro rispetto alla sapienza custodita nelle sue mani. E pur che apra bocca, avrà da elargirvi insegnamenti minuti e capitali sotto la forma innocua di aneddoti, di astuzie da artigiano, di racconti di viaggio; insegnamenti da lasciarvi ammirati, e anche sperduti e infreddoliti nella vostra solitudine di infanti che non hanno fatto ancora niente, non han visto ancora niente che lui non abbia già vissuto con suprema intensità e padronanza… Eccovi presi all’amo; inutile dibattervi. Solo un attimo fa, in salotto, parlavate di cinema: ora il cinema siete voi, in fila indiana a vedere dove diavolo va a utilizzare il suo filo d’acciaio armonico, dopo averlo quietamente lavorato. Gli avrei pure perdonato la porzione di torta sottrattami in zona Cesarini, se non se ne fosse uscito, di punto in bianco, a parlare di rivetti e rivettatrici. Ne possiede, annuncia, un’intera collezione; me lo dice in faccia, proprio a me!, sorridendo mitemente. Dite se una formica rossa non potrebbe odiare un uomo così. Io di rivettatrici ne possiedo una sola; piccolina; ed è già assai. Quando pianto un rivetto più grosso devo fargli prima il buco col trapano; e ribatterlo poi col martello. Mi capiterà sì e no una volta l’anno. I miei pallidi tentativi di credermi buona a qualcosa nelle arti manuali sono oscurati, ogni volta che rivedo quel tipo, dalla sola enumerazione degli attrezzi che possiede. Non venga a parlarmi mai delle sue fresatrici: gli salto al collo.

Ma gli perdonerei anche quelle, se invece di sparire dalla circolazione per tre mesi alla volta me le facesse almeno vedere.

Voglio essere sincera: non basterebbe. Dovrebbe anche insegnarmi i rudimenti del mestiere; sono anni che attendo un Maestro. Invece, gelido e ardente come il mago De vinculis: aizza il desiderio, e se ne va. Lui di là, voi di qua dall’abisso. Non c’è verso che mi inviti a visitare la sua fucina di Vulcano.

Potete decidere che la vostra identità è così sottile da non possedere amor proprio: e sarete forse in grado di affrontare i suoi racconti. Potete staccarvi dal mondo fino a non nutrire più alcun desiderio verso fili di acciaio, rivettatrici e fresatrici, nemmeno le migliori: allora sarete capaci di accettare la sua vicinanza più d’una sera. Ma se no…


 

La ricetta di Fulvio

Per conseguire una bagnacauda che vi guadagni il paradiso occorre possedere una barba austera e torinese; uno sguardo quieto e silente; e un arguzia segreta, pronta a cacciare il naso fuori appena l’aria si fa mite.

Inoltre si richiede una nonna che v’abbia trasmesso il segreto della domesticazione dei dèmoni interiori: quelli, per esser precisi, che frequentano le profondità degli apparati gastro-intestinali, e che una preparazione malaccorta saprebbe ben risvegliare.

In mancanza di questi primi ingredienti, non consiglio di inoltrarvi.

Se no circondatevi pure d’un manipolo di eroi, pronti ad affrontare a piè fermo i pericoli di una testa d’aglio in corpo a persona: perché non ce ne vuole di meno. Con gran dispiacere dovrete rinunciare, pertanto, a invitare i giovanotti col pizzetto e l’orecchino: attributi, come è noto, che non favoriscono erorismi digestivi; e rendono sì indimenticabile la serata, ma non nel senso che farebbe lieta la nonna.

Una testa d’aglio dunque a persona, privata di barbe, di tuniche, del cuore verde spicchio per spicchio; un coccio grande abbastanza per tutti; e i bulbi siano coperti di latte come la mia città quando si decide a nevicare: appena appena. Li lascerete lentamente a sobbollire.

Infine gli avran bevuto fino all’ultima goccia di latte: li schiaccerete. Unirete acciughe salate a pezzettini; ma la quantità e varietà di vini di cui fu testimone quella sera m’impedisce di narrarvi quante.

 Ricordo ancora che s’aggiungeva dell’olio, tanto da aversene un dito a galleggiare sopra tutto, e si faceva andare ancora sul fuoco: di più non dimandate.

Quale ricetta non si compone soprattutto di prove e di riprove? di vittime mancate? di geniali intuizioni? di sacrifici all’altare dei Penati?

Provate.

Il risultato sia incredibile, ma lieve; l’aspetto, genovese; l’aroma, notturno e suggestivo di strade maestre antiche e lente; e locande, e scuderie, cantine oscure e tavolacci; canti e racconti di carrettieri in sosta; transiti e incontri, partenze e assenze; nebbie; lumi a petrolio smarriti nel buio.

 Ma prima che arrivino, curiosi e timorosi, i commensali, avrete sparso il tavolo d’ogni sorta di verdure. Foglie di verza, testa di morto, ravanello; cipolla lessa, coste, cuori di finocchio; sedano; topinambur; peperone non si sa se bollito o arrostito; barbabietole a fette; e non so se v’erano zucchine crude, o sei il disio le aggiunge. Tutte quante ben lavate, mondate, tagliate; disposte ad arte entro piattini, coppolicchi, vassoietti ovali; consacrate a Pallade Atena; lasciate infine alla mercé dei cerimoniosi invitati. ‘posso servirla?’: ‘Ma prego, prima lei!, non si disturbi’; ‘Ecco, continuo il giro’; ‘Che bell’aspetto hanno queste’; ‘provi le teste di morto che non conosce ancora’; ‘ma il topinambur dov’è?’; ‘ahimé non siamo giunti a trovarlo’. ‘Ohi, io le coste mie non le ho avute, dà qua!’, ‘ma tu hai già il piatto pieno’, ‘fatti dunque gli affaracci tuoi una buona volta’; e vedrete se la sarabanda iniziale non scalderà subito gli animi, quanto e meglio del primo turno di vino.

Quanto a quest’ultimo: sia molto, scuro e propizio a tener chiare e sgombre le menti all’inoltrarsi della cena nella notte. Lasciate altrove le bottiglie di origine dubbia (quel ch’io non feci), come non le offrireste ad una messa. E quando il padellino di coccio sia giunto in tavola, ben caldo, alla portata di tutti; quando ciascuno abbia la sua fettina di pane per riportare indenni al suo domicilio le verdure tuffate nella crema odorosa, allora il tempo prenda a scorrere lieto.

E state in guardia da chi arriva soltanto dopo cena.

Stamperia Clandestina Ubaldini & Codanera

dieci copie

decise per affetto e per vendetta

la sera della bagnacauda di Fulvio

9 febbraio 2002

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